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ToggleL’ascesa della Corea nella cultura pop occidentale: dai k-drama al k-pop, orde di ragazzine, tra cui mia figlia, vivono ormai nella realtà parallela di una Corea talmente occidentalizzata da renderla compatibile con la nostra cultura. Seul ha la caratteristica di accostare i grattacieli e un ordine metropolitano inedito alle nostre latitudini con la tradizione. I coreani, come i giapponesi, sono un popolo chiuso, che si mescola poco all’esterno e che sopravvive identico a se stesso da centinaia di anni.
Eppure gli idoli del k-pop, così si chiamano i cantanti coreani, sembrano bambole che si muovono sullo sfondo colorato di una fiaba rock. Perché è l’elemento fiabesco a dare una nota in più al quadro generale: nei film vedi storie come Alice in Borderland o Mr. Queen, dove si narra di anime migrate altrove, in altri corpi o altri mondi. Netflix propone sempre nuove serie dove i demoni e le streghe sono un elemento imprescindibile, come se sullo sfondo di questa modernità risuonasse sempre questa nota arcaica che è fede nell’animismo antico, precedente al confucianesimo, quando erano le energie delle cose a parlare. Sebbene infatti il popolo coreano si dichiari in maggioranza ateo, il prodotto che ne traspare è altamente spiritualista.
Eterei, quasi ideali, sono questi cantanti, stilosi nel vestire come modelli usciti da una sfilata di moda, con volti perfetti e corpi esili e allungati, maschili nonostante la leggiadria femminile che esalano. I capelli biondi, rosa o verdi: anche nella band ATEEZ, a cui mia figlia mi ha trascinato a Milano, ci sono ragazzi che fanno esplodere il cuore alle nostre latitudini. Mi sono ritrovata in fila per un’ora sotto la pioggia, a guardare impotente ragazzine senza ombrello che prendevano una doccia battente, impassibili pur di assistere al concerto che avrebbe cambiato la loro vita. Romantiche e dark, come appena uscite dall’ultimo manga in edicola, anche le più robuste con le calze di pizzo nero e le minigonne inguinali, a segnare che la moda k-pop è arrivata a rimpinguare la vena dark-gotica nostrana.
Una volta entrati, mi è sembrato impossibile che le fan esplodessero in pianti isterici alla vista dei loro cantanti a pochi metri di distanza: le urla strazianti, di rito, le lanterne che cambiavano luce con il Bluetooth, all’unisono. Ho capito che le persone si riconoscevano della stessa tribù, guardandosi: alcuni veri e propri sosia di coloro che si esibivano sul palco, altri uniformati alla loro moda, a indicare che un concerto non è solo un concerto, ma un’esperienza di fratellanza.